Iniziamo con questo articolo un percorso di approfondimento del modello di prestazione della corsa, per sé e inserita nell’ambito delle attività multisport come il triathlon ma non solo, per studiare le risposte individualizzate dal punto di vista metabolico, meccanico, cinetico, cinematico e le interazioni tra atleti e materiali tecnici. In questo primo capitolo affrontiamo il tema dal punto di vista generale passando in rassegna la letteratura sull’argomento e guardando una prima acquisizione effettuata nel nostro laboratorio, introduttiva e propedeutica a rispondere alla domanda: quale scarpa massimizza il guadagno di tempo in gara per questo atleta? Quali sono le scelte da fare per ottenere il risultato migliore?
Negli ultimi anni il mondo della corsa ha vissuto una autentica rivoluzione tecnologica con l’introduzione di scarpe sempre più performanti, caratterizzate dall’uso di materiali “nobili” quali il carbonio per l’intersuola. Il principio, piuttosto intuitivo, è che uno scarpa capace di assorbire un maggiore livello di energia in compressione (nella fase di massimo caricamento) e di rilasciarne altrettanto in ritorno (nella fase di propulsione) riduce il costo metabolico del gesto, o a parità di costo aumenta l’output cioè la velocità [1] (Figura 1).
La condizione da rispettare è che il materiale utilizzato sia in grado di deformarsi molto sotto carico – c.d. compliance –, tornando alla sua forma e conformazione originaria – c.d elasticity -, e di restituire la maggior parte dell’energia assorbita durante la deformazione – c.d. resilience -, in fase di scarico. Alcuni materiali offrono molta compliance, ad esempio la plastilina, ma pochissima resilience. È il caso delle calzature “protettive”, che riducono i picchi di forza al contatto con il terreno, con l’intenzione di ridurre i carichi sulle articolazioni. Altri materiali, ad esempio la fibra di carbonio, estremizzano queste caratteristiche, consentendo di realizzare scarpe estremamente reattive
Il modello biomeccanico della corsa si presta perfettamente ad essere descritto secondo i concetti di carico e deformazione elastica. Nella corsa infatti il corpo si comporta un po’ come una molla o una palla, per cui maggiore la sua rigidità tanto più in alto il rimbalzo dopo aver toccato terra. Fisiologicamente la dinamica è la medesima, con il complesso di muscoli e tendini che immagazzinano energia elastica (potenziale) all’impatto con il suolo. Una scarpa reattiva non è solo in grado di massimizzare l’accumulo di energia ma anche di rendere estremamente efficiente la restituzione della stessa, dissipandone (sotto forma di calore) meno rispetto alle calzature tradizionali. Formalmente questa relazione è descritta dalla legge di Hooke per cui maggiore è la costante elastica k (misura della rigidità della molla) maggiore è la forza F necessaria a produrre la deformazione x.
Analogamente, se a pari deformazione la costante k aumenta, allora F sarà più grande…e quindi potenzialmente maggiore la restituzione dell’energia meccanica da parte della scarpa tanto maggiore sarà la propulsione “gratuita” con conseguente risparmio di lavoro muscolare e minore consumo di risorse interne.
Fin qui abbiamo parlato della scarpa e fin qui il filo logico e squisitamente fisico fila piuttosto liscio. Sono numerosi gli studi scientifici che hanno indagato gli effetti della costruzione delle scarpe e una importante review [2] ha concluso che “aumentare la rigidità (stiffness) dell’intersuola all’interno di un range ottimale di valori può essere di beneficio nel modificare le variabili associate alla prestazione”, per la precisione 5 studi dei 7 validati hanno portato a questa conclusione.
Come sempre però quando si parla di prestazione sportiva bisogna tenere in considerazione un elemento tutt’altro che secondario, cioè l’atleta, e le sue caratteristiche uniche, soggetto per soggetto, dal punto di vista antropometrico, metabolico, meccanico e cinematico. Soprattutto quando si ricerca la massima performance non ci si può limitare a conoscere il rendimento “medio” dei propri materiali, ma è fondamentale conoscere il tipo di interazione “su misura”.
Abbiamo quindi chiesto a Ivan Risti, triatleta professionista, Campione Italiano su distanza Sprint, esperto delle distanze lunghe e coach, di aiutarci a capire come lui usa le scarpe con cui abitualmente si allena, allo scopo di identificare lo strumento più adatto nelle diverse situazioni: da una seduta di allenamento in pista alla frazione run di un Ironman.
Da anni Ivan si avvale delle scarpe da running di Brooks, pertanto abbiamo selezionato due modelli particolarmente apprezzati dal triathleta milanese, ma anche piuttosto distanti l’uno dall’altro in termini di tipologia e uso. Da una parte la Ghost, scarpa ammortizzata e stabile da 294 grammi, dall’altra la nuovissima Hyperion Elite 2, classificata come “veloce”, da 215 grammi e dotata di piastra in fibra di carbonio nell’intersuola. Sono stati effettuati tre step di intensità per ciascuna scarpa, replicando la velocità del lento (intorno al ritmo gara Ironman), del medio e del veloce (quasi alla soglia anaerobica) così da esplorare in modo completo l’intera gamma di esercizio.
Poiché la corsa è un fenomeno estremamente complesso abbiamo utilizzato per l’analisi numerose variabili (Tabella 1), sia misurate direttamente che derivate, effettuando anche controlli incrociati degli stessi parametri acquisiti da sensori differenti. I risultati osservati “uno alla volta” sono di difficile interpretazione poiché è fondamentale considerare le interazioni tra loro.
Abbiamo quindi effettuato una Principal Component Analysis (una tecnica statistica che “uniforma” tutte le variabili rendendole confrontabili [4]) che ha portato alle seguenti conclusioni:
La scelta di iniziare a investigare questo tema con una prova indoor è stata fatta per le garanzie di maggiore stabilità delle condizioni al contorno, a partire dal comportamento della superficie di appoggio, un aspetto cruciale per gli scopi dell’indagine. Ovviamente non è esaustiva nella comprensione del fenomeno e richiede di ulteriori prove nell’ambiente “reale.
Nel grafico in Figura 3, si evidenziano chiaramente i tre cluster dalle intensità di esercizio e sembrano separarsi in modo chiaro anche le due tipologie di scarpe. Senza neppure bisogno di una validazione di tipo statistico viene subito spontaneo osservare che siamo di fronte a “due cose diverse”. In effetti a mano a mano che sale il livello prestazionale dell’esercizio (spostamento verso dx sull’asse x) aumenta la differenza nella Leg Spring Stiffness [5], ovvero l’effetto complessivo delle caratteristiche di compliance, elasticity e resilience che abbiamo definito inizialmente, risultante sul corpo dell’atleta. Le Hyperion Elite 2 sono quindi davvero capaci di restituire maggiore energia elastica immagazzinata a Ivan e la differenza è anche statisticamente rilevante a 16,5 km/h ma soprattutto a 18 km/h. A 14,5 km/h la Ghost si differenzia molto meno, complessivamente, dalla Elite 2. A quel ritmo, dunque, la scelta sul tipo di scarpa diventa neutra da un punto di vista oggettivo, e dipende in modo preponderante dal giudizio soggettivo dell’atleta (a cui è stata chiesta una valutazione personale circa comfort e reattività alle diverse velocità di corsa) La maggiore stiffness innesca una reazione dal punto di vista biomeccanico che include maggiore ampiezza (il tallone sale maggiormente disegnando una circonferenza di maggior raggio, così come confermato dal sistema di rilevazione ottico, Figura 4) e aumenta la fase di volo, riducendo per converso il tempo di contatto al suolo. Tutti fattori connessi all’aumento della prestazione. Anche dal punto di vista della stabilità il motion capture conferma attraverso l’osservazione della latero-lateralità di ginocchia, caviglie e anche, una delle caratteristiche principali della Elite 2.
Bisogna sottolineare come a pari velocità questa scarpa, sul treadmill e in questo specifico protocollo, sembri aumentare la quota di costo metabolico destinata al movimento verticale, confermando l’ipotesi che per trarne il massimo beneficio l’atleta debba essere capace di raggiungere velocità assolute di alto livello e soprattutto che sia dotato di un’ottima tecnica di corsa. Il rischio infatti è quello di essere letteralmente catapultato in alto anziché in avanti, con il rischio dunque di avere un risultato finale inverso, ovvero di sprecare energia nella direzione sbagliata!
Le Elite 2 sembrano garantire anche una maggiore ripetibilità della performance, come si vede dalla nuvola rossa molto più compatta (Figura 5), a indicare che a ogni passo la risposta è sempre molto simile.
Al ritmo più elevato i punti acquisiti con la HYPERION si pongono ben al di fuori dei valori critici sia per T^2 sia per Q, indicando che a queste velocità\potenze (18 km/h con 4,75 W/kg espressi) la Elite 2 ha un comportamento radicalmente diverso dalla Ghost.
I numeri contano ma poi in allenamento e sui campi di gara ci va l’atleta, suoi sono i piedi e sua la fatica. Quanto emerso dalle acquisizioni deve essere necessariamente aggregato al feeling dell’atleta, per questo abbiamo passato molto tempo dopo il test a chiacchierare con Ivan: “La Ghost è una scarpa che mi piace molto al lento, morbida ma allo stesso tempo con un buon livello di reattività – ha affermato sollecitato a descrivere le sue sensazioni – Dà quella sensazione di scarpa ammortizzante ma allo stesso tempo dinamica. Le Hyperion Elite 2 sono radicalmente diverse, richiedono una corsa diversa, perché senti tanta spinta in più e necessariamente modificandosi l’ampiezza devi adattare il resto”. Sorprendentemente questa maggiore reattività non sembra sacrificare il comfort, cui Ivan ha assegnato un voto identico a quello delle Ghost, 4 su una scala massima di 5.
Questo è quanto è stato possibile osservare e concludere in modo solido dal test indoor ma dato che siamo interessati a sapere se questo binomio Risti-Elite 2 funzioni anche nel mondo reale chiederemo a Ivan un ulteriore sforzo per andare a mettere sotto torchio il modello più performante di casa Brooks sull’asfalto.
Resta infatti da verificare il comportamento in una situazione di costo energetico costante e velocità libera (il contrario di quanto avviene sul tappeto) e anche il comportamento sulla distanza, sia attraverso la misurazione del costo metabolico con lo scambio di gas O2/CO2, sia per quanto riguarda l’andamento della Leg Spring Stiffness, che è un ottimo proxy di affaticamento muscolare, certamente una variabile fondamentale nel modello di prestazione del triathlon di lunga distanza, e non solo.
Inoltre, rimane da capire sia in generale sia per uno specifico individuo quale sia livello ottimale di compliance, elasticity e resilience per massimizzare la performance, quindi sarà interessante una prova “orizzontale” tra diversi brand/modelli che propongono la stessa tipologia di prodotto.
[1] Hoogkamer, W., Kipp, S., Frank, J.H. et al. A Comparison of the Energetic Cost of Running in Marathon Racing Shoes. Sports Med 48, 1009–1019 (2018).
[2] Sun X, Lam WK, Zhang X, Wang J, Fu W. Systematic Review of the Role of Footwear Constructions in Running Biomechanics: Implications for Running-Related Injury and Performance. J Sports Sci Med. 2020;19(1):20-37. Published 2020 Feb 24.
[3] Imbach F, Candau R, Chailan R, Perrey S. Validity of the Stryd Power Meter in Measuring Running Parameters at Submaximal Speeds. Sports (Basel). 2020 Jul 20;8(7):103. doi: 10.3390/sports8070103. PMID: 32698464; PMCID: PMC7404478.
[4] Kim H. Esbensen, Dominique Guyot, Frank Westad, Lars P. Houmoller, Multivariate Data Analysis: In Practice : an Introduction to Multivariate Data Analysis and Experimental Design, Multivariate Data Analysis, 2002. ISBN8299333032, 9788299333030
[5] Farley CT, González O. Leg stiffness and stride frequency in human running. J Biomech. 1996 Feb;29(2):181-6. doi: 10.1016/0021-9290(95)00029-1. PMID: 8849811.
[6] R. Leardi, C. Melzi, G. Polotti, CAT (Chemometric Agile Tool), gratuitamente scaricabile al seguente link http://gruppochemiometria.it/index.php/software